6 Nisan 2008 Pazar

Apartman inşa etmek istemedim

talya'nın ünlü dekorasyon dergisi "Abitare" nisan sayısında Nobel ödüllü yazar Orhan Pamuk'un yarım kalan mimarlık serüvenine ait bir yazıyı yazarın kaleminden yayımladı. Orhan Pamuk, yazısında mimarlık okuduktan sonra okulu yarıda bıraktığını belirterek "Neden mimar olmadın?" sorusunu yöneltenlere "Apartmanlar inşa etmek istemiyorum" diye yanıt verdiğini anlattı. Mimarlığı reddeden Pamuk yazısına şöyle devam etti: "25 yıllık yazarlık hayatımdan sonra o kağıtların beyaz olmadığını anladım. Masaya oturduğumda gelenekler ile tarihin ve kuralların ezemediği insanlar bana eşlik ediyor."

Pamuk, l' architetto mancato «I palazzoni mi spaventavano»


Lasciò dopo tre anni di studi.

«Andai a cercare i sogni dietro le facciate»

Ho studiato per più di tre anni architettura all' Università Tecnica di Istanbul, ma non ho concluso gli studi e non sono diventato architetto. Oggi ormai sento che questo è dipeso dalle mie fastose immaginazioni moderniste compiute davanti a lontani fogli bianchi. Ho capito che non volevo diventare architetto, né pittore, come avevo sognato per anni. Mi sono alzato e allontanato dai grandi fogli bianchi di architettura che mi provocavano i capogiri, mi agitavano e mi incutevano paura, e mi sono messo a sedere davanti ad altri fogli bianchi, che allo stesso modo mi provocavano i capogiri, mi agitavano e mi incutevano paura. E sto così da venticinque anni. Il vuoto del foglio bianco, la sensazione di trovarmi all' inizio di ogni cosa, il sogno che il mondo finirà per adattarsi al mio progetto, sono identici a quelli dei tempi in cui sognavo di diventare architetto. Senonché, con gli stessi sogni sono riuscito a scrivere per venticinque anni, e continuo a farlo. Allora riformuliamo la domanda che venticinque anni fa mi veniva rivolta tanto di frequente, come adesso: perché non sono diventato architetto? Risposta: perché pensavo che i fogli nei quali avrei riversato i miei sogni fossero bianchi. Invece, dopo venticinque anni di vita da scrittore ho capito ormai che i fogli non sono mai né bianchi né vuoti. So bene che, quando mi siedo alla scrivania, sono accompagnato dalla tradizione, dalle persone mai sottomesse alle regole e alla storia, da tutto ciò che è accidentale, disordinato, oscuro, terrificante e immondo, dal passato e dai suoi fantasmi, dai fatti realmente accaduti sui quali la società e la lingua ufficiali vorrebbero far scendere l' oblio, dalla paura e dagli spettri che alimentano la paura. Per trasferire tutto questo sui fogli ho dovuto scrivere romanzi che per una buona metà guardano alla storia, al passato, a ciò che la moderna Repubblica e l' occidentalizzazione vogliono dimenticare, e per l' altra metà rivolgono il proprio sguardo al futuro e ai sogni. Se a vent' anni avessi compreso che avrei potuto fare lo stesso con l' architettura, avrei cercato di diventare architetto. Ma allora ero un risoluto modernista che cercava di liberarsi dal peso e dalla oscenità della storia, dai lemuri e dalla penombra, un ottimista sostenitore dell' occidentalizzazione che credeva di essere ancora agli inizi di tutto. Le persone insofferenti delle regole, la storia e la complessa cultura della mia città si manifestavano a me non come una componente dei miei sogni, bensì come ostacoli al loro avverarsi. Capii subito che non mi avrebbero lasciato costruire gli edifici che avrei voluto realizzare. Ma non potevano impedirmi di chiudermi in casa e scrivere. Ho impiegato otto anni per pubblicare il mio primo libro. In quel periodo, specialmente nei momenti in cui non avevo speranza che qualcuno lo pubblicasse, facevo un sogno ricorrente: sono studente di architettura, disegno un palazzo per la lezione di progettazione e manca poco alla consegna. Sono seduto a un tavolo e mi applico con tutte le mie forze, dovunque intorno a me ci sono disegni rimasti a metà, rotoli di carta, macchie d' inchiostro che sbocciano come fiori velenosi. Più vado avanti con il lavoro, più mi vengono idee brillanti; ma a dispetto del mio fervore, i tempi di consegna incalzano angusti, quella terribile scadenza si avvicina; in realtà so bene che se non riuscirò a finire in tempo questo ampio e articolato progetto, la responsabilità e la colpa sono mie. Mentre lavoro fantasticando ancor più febbrilmente, il mio senso di colpa è così profondo che si trasforma in un dolore intollerabile e mi sveglio. Vorrei chiarire che il terrore dietro a questo sogno ovviamente non riguardava gli esami universitari: è la paura di diventare scrittore. Se fossi diventato architetto avrei avuto bene o male un mestiere e avrei guadagnato abbastanza da garantirmi uno stile di vita medio borghese. Quando iniziai a prospettare in modo vago la mia intenzione di diventare scrittore e scrivere «romanzi», i miei parenti e amici in coro mi dicevano che negli anni a venire avrei sofferto molto a causa della penuria di denaro. Il mio sogno soddisfaceva dunque un desiderio nascosto, a dispetto di tutti i sensi di colpa: se cercavo di diventare architetto non mi distaccavo da una vita «normale». Ritmi esagerati di lavoro e fantasticherie intense in scadenze strettissime, hanno spesso segnato la mia condizione di spirito anche quando in seguito avrei scritto senza limiti di tempo. Allora, quando mi domandavano perché non fossi diventato architetto, fornivo la stessa risposta adottando un altro linguaggio: «Perché non voglio costruire condomini!». Con «condomini», intendevo uno stile di vita, un concetto architettonico. Dopo gli anni Trenta la vecchia città fu quasi completamente abbandonata, le classi medie e alte avevano cominciato ad abbattere le case a due o tre piani con grandi giardini, e a costruire palazzi che in sessant' anni avrebbero portato la distruzione di tutto il vecchio tessuto e dell' aspetto storico di Istanbul. Alla fine degli anni Cinquanta, quando incominciai la scuola elementare, tutti gli alunni della classe abitavano in appartamenti. Questi palazzi dalle facciate semplici e moderne stile Bauhaus, ma con gli sbalzi dei balconi tipici delle case turche tradizionali, che avrebbero poi ricordato brutte imitazioni dello stile internazionale, presentavano interni molto simili tra loro per via di problemi legati alle divisioni ereditarie o all' esiguità dell' area costruita. Scale strette in mezzo e un buco di aerazione chiamato «cavedio», un soggiorno davanti e dietro due o tre stanze affidate al talento dell' architetto e allo spazio. Un lungo corridoio che collega il soggiorno alle stanze retrostanti, le finestre sul cavedio e quelle della tromba delle scale sono gli elementi che rendono gli alloggi terribilmente simili tra loro. Puzzavano sempre dello stesso odore di muffa, di stantio, di olio fritto e di escrementi di uccelli. Ciò che m' inibiva di più mentre studiavo architettura era l' idea di essere obbligato a tirar su palazzi del genere, seguendo il piano regolatore, il gusto semioccidentalizzato delle classi medie e, ancor peggio, il profitto. In quei tempi molti parenti e amici scontenti che si lamentavano degli architetti disonesti, mi dicevano che mi avrebbero affidato volentieri, una volta diventato architetto, i terreni ereditati dai loro padri perché ci costruissi quel genere di murature. Non sono diventato architetto e così mi sono liberato dal compito di costruire palazzi di questo tipo. Sono diventato scrittore e ho scritto molte cose su questi edifici. La scrittura mi ha insegnato che sono le fantasie degli inquilini a trasformare un palazzo in una casa. Esse si alimentano degli angoli vecchi, depressi, cupi e sporchi dei condomini. Così come vediamo vecchi palazzi diventare più belli col passare del tempo, allo stesso modo vediamo le facciate di palazzi che non avevano nessuna intenzione di diventare delle case trasformarsi in costruzioni intessute di sogni. Ecco ciò di cui l' architetto non potrà rinvenire le prove e le impronte tangibili: i sogni attraverso i quali i primi inquilini di un nuovo e ordinario palazzo - costruito con una foga animata da ideali modernisti e filo-occidentali - ne abbiano fatto una casa. Mentre camminavo tra le rovine del terremoto - frammenti di muri, vetri rotti, pantofole, sottolumi, tende infilate dovunque, tappeti e grumi di mattone e calcestruzzo -, quel terremoto costato la vita a trentamila persone, ho avvertito ancora una volta e con maggiore intensità l' esistenza dell' immaginazione dell' uomo che riesce a trasformare ogni edificio, ogni rifugio vecchio o nuovo in una casa. Come i protagonisti di Dostoevskij che si aggrappavano alla vita anche nelle condizioni più difficili grazie alla loro fantasia, così noi sappiamo nelle situazioni più dure trasformare gli edifici in case. E quando queste case crollano dopo un terremoto, capiamo con dolore che esse sono in realtà edifici. Mio padre mi raccontò di essere andato, subito dopo il sisma, a rifugiarsi in un altro palazzo duecento metri più lontano, nel buio della notte, visto che in tutta la città era mancata la corrente elettrica. Quando gliene chiesi la ragione mi rispose: «Quello è solido, l' ho costruito io». Era quel palazzo di famiglia dove avevo trascorso la mia infanzia con la nonna, gli zii e le zie, e dove ho ambientato molti miei racconti. E mio padre - io credo - era andato a rifugiarsi laggiù non perché fosse davvero più sicuro: ma perché era una casa. * * * In edicola Il design e la Cina Anticipiamo parte dell' intervento di Pamuk pubblicato sul numero di aprile di «Abitare», da domani in edicola. Il numero è doppio: uno sul design in Cina e il Salone del Mobile di Milano; l' altro è il primo «Abitare» pubblicato in Cina
Pamuk Orhan
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(7 aprile 2008) - Corriere della Sera